#lePAROLEcheSENTO – Diario di scuola

Ti capita mai di leggere degli articoli che ti rimangono in testa per giorni? Libri che cambiano la tua visione delle cose?

“Le parole che SENTO” è uno spazio di condivisione di testi per noi significativi, che risuonano con il nostro essere educatori e il nostro vivere e far vivere l’arte.


Da “Diario di scuola” di Daniel Pennac

È immediatamente percepibile, la presenza del professore calato appieno nella propria classe. Gli studenti la sentono sin dal primo minuto dell’anno, lo abbiamo sperimentato tutti: il professore è entrato, è assolutamente qui, si è visto da suo modo di guardare, di salutare gli studenti, di sedersi, di prendere possesso della cattedra. Non si è disperso per timore delle loro reazioni, non si è chiuso in se stesso, no, è a suo agio, da subito, è presente, distingue ogni volto, la classe esiste subito davanti ai suoi occhi.

Questa presenza l’ho provata di nuovo, poco tempo fa, a Le Blanc-Mesnil, un comune della periferia parigina, invitato da una giovane collega che aveva fatto lavorare i suoi allievi su uno dei miei romanzi. Che mattinata ho passato, lì! Bombardato di domande da lettori che sembravano padroneggiare meglio di me la materia del mio libro, l’animo dei miei personaggi, che si esaltavano su alcuni brani e si divertivano a beccare i miei tic di scrittura… Mi aspettavo di rispondere a domande diligentemente formulate, sotto l’occhio di un’insegnante appena un po’ in disparte, preoccupata solo del comportamento della classe, come mi capita spesso, e invece mi sono ritrovato nel vortice di una controversia letteraria dove gli studenti mi ponevano ben poche domande prevedibili.
Quando l’entusiasmo trascinava le loro voci al di sopra del livello di decibel sopportabile, era l’insegnante stessa a farmi una domanda, due ottave sotto, e l’intera classe si conformava a quella linea melodica. Più tardi, nel caffè dove pranzavamo, le ho chiesto come riuscisse a gestire tutta quell’energia vitale.
Dapprima è stata vaga:
“Non bisogna mai parlare più forte di loro, è questo trucco” .
Ma volevo saperne di più sulla sua capacità di gestire quegli studenti, sul loro piacere evidente di essere lì, sulla pertinenza delle loro domande, sulla serietà del loro ascolto, sul controllo del loro entusiasmo, su come sapessero dominarsi quando non erano d’accordo, sull’energia e l’allegria dell’insieme, insomma su tutto ciò che contrastava nettamente con la rappresentazione terrificante che i media diffondono delle scuole della banlieue.
Fece la somma delle mie domande, rifletté un po’ e rispose:
Quando sono con loro o alle prese con i loro compiti, non sono altrove“.
Aggiunse:
“Ma quando sono altrove, non sono proprio più con loro”.
Il suo altrove era, nella fattispecie, un quartetto d’archi che esigeva dal suo violoncello l’assoluto necessario alla musica. Del resto lei sosteneva vi fosse una correlazione tra una classe e un’orchestra.
Ogni studente suona il suo strumento, non c’è niente da fare. La cosa difficile è conoscere bene i nostri musicisti e trovare l’armonia. Una buona classe non è un reggimento che marcia al passo, è un’orchestra che suona la stessa sinfonia. E se hai ereditato il piccolo triangolo che sa fare solo tin tin, o lo scacciapensieri che fa soltanto bloing bloing, la cosa importante è che lo facciano al momento giusto, il meglio possibile, che diventino un ottimo triangolo, un impeccabile scacciapensieri, e che siano fieri della qualità che il loro contributo conferisce all’insieme. Siccome il piacere dell’armonia li fa progredire tutti, alla fine anche il piccolo triangolo conoscerà la musica, forse non in maniera brillante come il primo violino, ma conoscerà la stessa musica.
Fece una smorfia fatalista:
“Il problema è che vogliono farci credere che nel mondo contino solo i primi violini”.
Una pausa:
“E alcuni colleghi si credono dei Karajan che non sopportano di dover dirigere la banda del paese. Sognano tutti la Filarmonica di Berlino, è comprensibile…”. Poi, al momento di lasciarci, mentre io le ripetevo la mia ammirazione, rispose:
“C’è da dire che lei è venuto alle dieci. Erano svegli”.